La memoria è un dovere. James Nacthwey in mostra a Palazzo Reale

ritratto_james-nachtwey_web

Ritratto di James Nachtwey

Memoria.

È questo il lapidario titolo dell’imperdibile mostra del fotografo americano James Nachtwey (Syracuse, stato di New York, 1948) a Palazzo Reale di Milano, prima tappa di un itinerario che toccherà diverse città e vari paesi, per presentare la più grande retrospettiva mai realizzata finora sul lavoro di questo straordinario, coraggioso narratore, a cura di Roberto Koch e Nachtwey stesso.

Di fronte a immagini sconvolgenti per potenza, bellezza, coraggio si fa fatica a trovare parole adeguate, meglio lasciare spazio a quelle del loro autore: “Ogni singola fotografia di questa mostra è un frammento della mia memoria, catturato lungo il continuum della storia che ho vissuto. Ogni immagine è stata scattata allo scopo di raggiungere un vasto pubblico, all’epoca in cui gli eventi ritratti hanno avuto luogo, per scuoterne la coscienza ed essere un contributo tra tanti al cambiamento. Oggi che quello stesso continuum si muove ancora inesorabilmente in avanti, mentre questi eventi si allontanano nel tempo, spero che le mie fotografie rimangano a perpetua memoria delle persone che vi sono ritratte, delle circostanze che hanno dovuto sopportare e di come tali circostanze siano venute a crearsi. Condividere questi ricordi ci rende tutti testimoni. Non dimentichiamo.

3

Una delle prime manifestazioni della seconda Intifada palestinese. Cisgiordania, Ramallah, 2000 © James Nachtwey / Contrasto

James Nachtwey è considerato l’erede di Robert Capa: reporter dal 1984 per “Time Magazine”, è stato a lungo membro della Magnum (1986-2001), poi tra i fondatori di un’altra grande agenzia fotogiornalistica, la VII; le sue foto rappresentano una delle più alte vette del fotogiornalismo dei nostri anni e sono convinto che, visitando la mostra, vi capiterà in più occasioni di sussultare, mormorando tra di voi “ah ecco, era sua!”, quando scoprirete che è l’autore di molte immagini dei grandi eventi dei nostri giorni impresse nella nostra memoria.

La sua carriera si può far iniziare a Belfast nel 1981, quando il detenuto Bobby Sands dell’IRA portò avanti, per protesta contro le autorità inglesi, uno sciopero della fame che lo condusse alla morte, proseguendo poi per quasi quarant’anni attraverso le numerose tappe di un periplo continuo che lo ha visto affrontare guerre, rivoluzioni, colpi di stato, emergenze sanitarie, disastri naturali, da El Salvador al Nicaragua, dal Libano alla striscia di Gaza, dalla Romania all’Afghanistan, e poi nelle Filippine, in Somalia, Sudan e Rwanda, in Sud Africa, Bosnia e Cecenia, nei Balcani e nella New York devastata dall’11 settembre, per poi riprendere il viaggio attraverso l’Iraq, di nuovo l’Afghanistan, Israele, il Giappone di Fukushima e l’Indonesia dello tsunami, eccetera eccetera.

Eppure, uscendo da questa grande mostra che raccoglie, stampate in grande formato, circa 200 fotografie, non ci sentiamo prostrati dallo spettacolo continuo del dolore e della violenza esercitata da uomini su altri uomini: come mai?

Una madre veglia sul figlio. Sudan, Darfur, 2003 © James Nachtwey / Contrasto

Proviamo a guardare la foto di questa madre che veglia il figlio malato: siamo nel 2003 nel Darfur, la regione del Sudan devastata da uno dei più efferati conflitti intestini degli ultimi 20 anni, che ha visto atrocità di ogni genere e il sommarsi di un vero genocidio a una devastante carestia. Il ragazzo, probabilmente debilitato dalla mancanza di nutrizione, è assistito dalla madre, lì al suo fianco, silenziosa, che lo accarezza con gli occhi e il contatto colmo di riserbo della mano. La curva delicata del profilo della donna, le diagonali disegnate dal sollevarsi del ginocchio del ragazzo, dal braccio di lei e dal dialogo che unisce i due sguardi sono come onde che solcano la superficie dell’immagine; il bianco e il grigio delle vesti e lenzuola e il nero delle epidermidi si bilanciano sul fondo neutro del muro alle loro spalle, dando serenità, calma e un’inaspettata fermezza. Ma quel tendaggio annodato in alto, che occupa quasi metà del campo, con la sua consistenza delicata e impalpabile a cosa serve? Un altro fotografo probabilmente non lo avrebbe incluso nello scatto, dato che non aggiunge nulla al soggetto; non era forse meglio zoomare di più sui volti, scavare nei loro sentimenti? Ecco, è precisamente quel che Nachtwey non fa: madre e figlio non sono trofei da esibire in una macelleria del dolore, perché – come scrive – “quando qualcuno soffre non significa che non abbia dignità, anzi, sopportare la sofferenza può essere una forma elevata di dignità.” Ed ecco perché quel velo bianco e trasparente sopra le loro teste ci dice in realtà tante cose, ci parla di delicatezza, di amore semplice e tenace, del prendersi cura, di luce, L’ho detto con troppe parole, ma è questo quel che chiamiamo bellezza, ed è la bellezza che fonda la speranza.

Una camera da letto diventata campo di battaglia a Mostar. Bosnia-Erzegovina, 1993 © James Nachtwey / Contrasto

Quella speranza che non vediamo nella foto del guerrigliero asserragliato in una casa a Mostar, nel 1993, che punta il mitragliatore attraverso le persiane: la camera da letto, il luogo più intimo di un’abitazione, è completamente snaturata nella sua funzione, la violenza del mondo vi ha fatto irruzione in modo irrimediabile, trasformandola in teatro bellico, rappresentazione eloquente di un principio che Nachtwey lucidamente coglie quando scrive: “La guerra crea una nuova realtà, in cui l’inaccettabile diventa prima ineludibile e poi si trasforma in normalità.

Troverete in mostra anche un capolavoro indimenticabile, la foto del crollo della torre sud del World Trade Center l’11 settembre del 2001.

La torre sud del World Trade Center collassa in seguito allo schianto dell’aereo. USA, New York, 2001 © James Nachtwey / Contrasto

Solo chi unisca un talento visivo raro a una grande sensibilità poteva regalarci questa immagine: sul vuoto che si sta aprendo dove, un istante prima, stava un colosso architettonico simbolo della potenza finanziaria statunitense, inquadrato dall’altro grattacielo a destra e dalla casa in mattoni a sinistra, fumo e detriti si alzano al cielo proprio alle spalle di una croce arrugginita in primo piano. Scontro di civiltà, odio religioso, guerra economica ammantata di altri significati, semplice simbolo universale e impotente del dolore che ci accompagna sotto tutti i cieli: sono solo i primi significati che affiorano alla mente, guardando questa immagine formidabile, dalla geometria armoniosa – volumi, colori e luce perfettamente bilanciati – in cui, osservando attentamente, si può scorgere la profezia di quel che sarebbe accaduto di lì a poco. Grazie al punto di vista da sotto in su infatti, la seconda torre che vediamo sulla destra sembra scorrere su un piano inclinato, il punto di fuga delle diagonali la attira inesorabilmente verso il basso, prefigurando così il suo precipitare e il futuro completamento della catastrofe. E James Nachtwey era lì, a testimoniare con la bellezza delle sue immagini quel che accadeva, ricordandoci che la memoria è un nostro dovere: non dimentichiamo!