La ringanxiety, le bufale e l’app che costringe i figli a rispondere al telefono

smartphone

Ci sono delle parole che ci qualificano. Non personalmente ma come generazione. Ringanxiety è una di queste. Il termine nasce dell’unione delle due parole inglesi “ring” e “anxiety” e quindi rispettivamente suono/squillo e ansia. In pratica vorrebbe identificare quelli che hanno la sensazione di avvertire il proprio cellulare che suona. Che lo sentono squillare anche quando è spento. Quelli che al posto di sentire le voci come i matti sentono le suonerie.

Daniel Kruger e Kaikob Djerf, sono due ricercatori dell’Università del Michigan che hanno cercato delle prove per l’esistenza della patologia Ringanxiety. Chiaramente non le hanno trovate ma sono riusciti comunque a pubblicare un articolo scientifico su una rivista che si chiama Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking, un titolo perfetto per ospitare il loro studio secondo cui ben l’80% del campione ha ammesso di aver sofferto di Ringanxiety, cioè di essersi interrotta dal fare quello che stava facendo per la convinzione di avere sentito il proprio telefonino suonare. A rigore di logica dentro a quell’80% ci dovrei essere anche io. Primo perché uso una suoneria piuttosto comune e spesso a suonare è il cellulare di un’altro. Poi perché sono distratto e penso sempre di averlo perso (potrei essere affetto da Lostanxietyphone sindrome). Ci sono poi nel gruppone di disturbati anche tutte le persone stressate perché aspettano una telefonata urgente di lavoro. O dell’amante. O dell’amico. O del figlio. Quindi dobbiamo farcene una ragione e accettare di essere un po’ tutti un po’ ringansiosi. Con buona pace di chi è impermeabile alla vita moderna. Detto questo di solito è il buon senso a regolare l’impatto delle presunte epidemie di nuove patologie legate all’elettronica di consumo. Buon senso che però viene completamente a mancare quando la tecnologia si mette al servizio dell’ansia.

Businesswoman using mobile phone in coffee shopIn questi giorni sui giornali si è parlato di ReplyAsap, una applicazione per smartphone (per fortuna mia solo per Android) realizzata da Nick Herbert un 45enne del Regno Unito. Il signor Herbert deve avere un rapporto doloroso con i propri figli tale da costringerlo a inventare una app che li obbliga a rispondere al telefono. In pratica, così si legge, il telefono comincia a squillare anche quando è in modalità muta e per interrompere la suonerie e una finestra che compare sullo schermo occorre rispondere. Per veicolare su scala globale la ringanxiety non c’è modo migliore. Un telefonino che non smette di suonare. Altro che ansia.

Leggendo le recensioni (poche per fortuna) di questa app scopriamo che per fortuna non funziona bene ed è difficile da configurare. Riflettendoci meglio scopriremmo anche che è contraria alla privacy, al buon senso e all’ambizione di avere una relazione normale con i propri figli. Peraltro, è contraria anche agli adulti. Chi potrebbe impedire a un’azienda di usarla con i propri dipendenti? O di un marito geloso con la moglie? Insomma, perché consentire una simile cattiveria? Come vale, su Facebook se qualcuno non ha chiesto la tua amicizia o non si è messo in contatto ci sarà un motivo. Così dovrebbe valere per i figli. Se la vostra prole non vuole parlare con voi al telefono magari è impegnata, magari non può rispondere, o magari anche non ne ha voglia. Ecco, non ne ha voglia. Che meraviglia.

smartphone3