Essere mamma in Italia? dipende dalla regione in cui si vive

mom-1403724_960_720Hanno quasi 32 anni, una su quattro lascia il lavoro e le altre fanno i salti mortali fra impegni professionali e famiglia. E’ l’identikit delle mamme italiane, sempre più rare visti i tassi di natalità in continua discesa. Certo che le condizioni cambiano a seconda delle regioni in cui si abita. Il rapporto “Le equilibriste: la maternità tra ostacoli e visioni di futuro” sulla condizione materna in Italia, diffuso da Save the Children, infatti, sottolinea come nel nostro Paese la scelta di diventare mamma possa pregiudicare la condizione sociale, professionale ed economica di una donna a seconda della regione nella quale vive. Gli squilibri regionali sono evidenti e vedono le regioni del Nord più virtuose rispetto alle regioni del Sud, dove la condizione delle madri fatica a migliorare. La palma di regione “amica delle mamme” va al Trentino-Alto Adige, una conferma rispetto allo scorso anno. A seguire Valle d’Aosta, Emilia-Romagna, Lombardia e Piemonte. Il fanalino di coda, invece è la Sicilia, preceduta da Calabria, Puglia, Campania e Basilicata.

Il rapporto evidenzia lo stesso divario Nord-Sud anche nelle tre aree di indicatori prese in esame per ciascuna regione: cura, lavoro e servizi per l’infanzia. Per quanto riguarda la
cura – un insieme di indicatori che mettono in corrispondenza i tassi di fecondità delle donne con la distribuzione interna del lavoro in casa tra i partner – la Lombardia risulta non solo la regione più virtuosa ma anche quella che, assieme a Umbria e Calabria, ha ottenuto un forte miglioramento. La Sicilia, invece, mostra segni di miglioramento esclusivamente per quanto riguarda l’area della cura, per la quale occupa una posizione intermedia.

I dati sull’impiego femminile vedono Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta, Emilia-Romagna e Lombardia alle prime posizioni. L’area dei servizi per l’infanzia conferma Valle d’Aosta e
Trentino-Alto Adige come migliori. Emblematico il caso della Toscana che, rispetto alle altre due aree di indicatori, in quella dei servizi all’infanzia si posiziona tra le prime cinque
regioni virtuose. L’Emilia Romagna, invece, rispetto al 2016 peggiora la sua condizione sui servizi. L’occupazione femminile rappresenta ancora una delle criticità strutturali: le disparità salariali, i part-time, le riduzioni dell’orario di lavoro, i contratti precari sono spesso le situazioni alle quali le donne devono adattarsi per non perdere il proprio posto nel mercato del lavoro. L’Italia, infatti, si colloca alla 27.ma posizione (Ue 28), seguita solo
dalla Grecia per quanto riguarda l’occupazione delle donne tra i 25 e i 49 anni. In Italia, le donne in questa fascia d’età sono occupate per il 57,9% contro il 77,9% di uomini della stessa età. Con l’aumentare del numero di figli, aumentano anche le possibilità di rimanere disoccupate: si passa da un tasso occupazionale del 58,4% per le donne con un figlio (72,5% la media UE28) al 54,6% per quelle con due bambini (71% la media UE28) fino al 41,4% per quelle con tre o più figli (54,9% la media UE28). Invece gli uomini registrano tassi occupazionali rispettivamente dell’82,1%, dell’86,7% e dell’82,9%. Mentre la popolazione tende ad invecchiare, l’età delle neomamme aumenta in tutta Europa. L’Italia occupa il penultimo posto, seguita solo dalla Grecia, con una media di anni al parto di 31,7 contro quella europea di 30,5. In diminuzione nel nostro Paese le mamme sotto i 18 anni, che nel 2015 sono 1.739 contro le 1.981 dell’anno precedente.

Infine, le incombenze della cura familiare si concentrano maggiormente sulle mamme con il figlio più piccolo sotto i 5 anni (2,7 milioni), su quelle con il figlio più piccolo tra i 6 e gli 11 anni (2 milioni) e su quelle con il figlio più piccolo oltre i 12 anni (3,2 milioni). Se si sommano a questi dati quelli sulla cura di persone anziane, il risultato è allarmante: la media complessiva del lavoro di cura di bambini 0-4 anni e anziani over 80 che grava sulle donne in Italia tra i 15 e i 64 anni è del 33,8% e aumenterà nel 2036 arrivando al 46,2% se non si rafforzerà nel frattempo la rete di welfare e non cambierà la
distribuzione dei carichi di cura donne-uomini.