Madri e lavoro: perché non si parla del ruolo del padre?

img_2904Il tasso di disoccupazione in Italia, secondo l’Istat, nell’ultimo trimestre del 2016 era al 12,2%, nel 2006 era del 6,8%. In quell’anno il tasso di occupazione femminile era al 45,5% e quello maschile al 69,8%, mentre nell’ultimo trimestre del 2016 quello maschile è sceso al 66,5% e quello femminile è salito al 48,3%. Saldo negativo su base assoluta, positivo se si guarda all’occupazione femminile. Ma non basta, siamo d’accordo; di più ancora, non va per niente bene.

Eppure nelle ultime settimane è andato in scena un dramma sentimentale, che di questi numeri non tiene conto e che ha saputo spaccare il mondo femminile. Da una parte momsdontquit.it che gioca la carta delle “dimissioni da mamma” scritta da quelle che tornano a lavorare – eppure chissà quanto invidiate da chi non lo trova, il lavoro -, dall’altra la rivendicazione di forza di quelle che hanno saputo conciliare carriera e maternità e anzi trarre da quest’ultima impulso e competenze.

La figura dei padri è sullo sfondo del dibattito, ma centrale e può essere sintetizzata in uno spiccio “fate la vostra parte”, che vuole dire siate supplenti, o meglio, condividete l’onta dei ritardi, dei tanti permessi, delle riunioni interrotte alle sei del pomeriggio – parlando di chi ha un classico orario di lavoro dalle 9 alle 18 -, dei giorni di malattia dei figli. Illuminante in questo senso una testimonianza della campagna #momsdontquit “sentivo di togliere qualcosa al mio lavoro, pesare sul team che è sempre stato full time, full day, completamente dedicato”.

Tutto chiaro e legittimo, ma solo se diamo per normali quelle crepe del lavoro che fanno sembrare i diritti delle concessioni, che fanno sentire in colpa chi lavora secondo i contratti, che fanno provare vergogna perché non si è più generosi di tempo, che è quello che si aspettano tante aziende. Insomma, il problema sono le donne che diventano madri, i padri che sono poco padri, oppure la debolezza di tutti nei confronti del lavoro?

Sì, perché lo sostiene anche il Censis, le persone hanno paura di perderlo, il lavoro. Sono terrorizzati dal rischio di scivolare verso il basso, di perdere risorse e benessere. Di essere così poco padri e madri da trovarsi nell’impossibilità di crescere adeguatamente i figli, di sottrarre loro opportunità e tranquillità.

Di queste paure non vi è traccia nel dibattito sulle “dimissioni da mamma”, perché avviene fra élite; chi sceglie di non lavorare in favore della cura dei figli perché può farlo e chi invece cerca realizzazione nell’intrapresa e nella carriera e ha gli strumenti – anche economici – di conciliazione. Intendiamoci, il tema dell’occupazione femminile c’è e più che riflessione, merita intervento, esattamente come quello dell’occupazione tout court, e del welfare e delle retribuzioni e della fiducia nel futuro. Distinguiamo però il lavoro dal successo professionale e cerchiamo prioritariamente di rendere il primo dignitoso. Solo su questa base sarà possibile costruire legittime e auspicabili carriere che siano nella disponibilità di merito di tutte.  

La speranza, un’altra speranza, è che la genitorialità che si sta esprimendo in questi ultimi anni sia frutto di una nuova dinamica di ruoli e generi e non solo la reazione emotiva di almeno un paio di generazioni alla grande disillusione dell’ascesa sociale.