Un secondo da papà, ed è subito casa

Parcheggio. Devo trovare parcheggio. Non troppo lontano, altrimenti non arrivo in tempo. Ecco, qua c’è un posto. No, non va bene, ci sono le strisce pedonali. Faccio un altro giro.

Già, un altro giro. Come se non bastasse quelli che ho già fatto negli ultimi giorni. Lunedì: colazione a Treviso, pranzo a Milano (via Bologna) e cena a Roma, tutto in treno; martedì tutta la giornata a Roma e la sera rientro a Treviso (ma prima pit stop a Mestre a riprendere l’auto); mercoledì Treviso – Mestre in macchina, poi  Mestre – Milano, e la sera stessa direzione e verso opposto;  e oggi a Parma in auto, da Treviso, e poi scapicollarsi per arrivare a una riunione alle 16, di nuovo in Veneto. Riunione che inizia in ritardo, ma tu non lo sapevi. E ora devi trovare parcheggio.

Perché lo hai fatto? Perché non hai dormito a Milano? Da lì a Parma è un’ora, invece tu ce ne hai messe quasi tre in auto. E tre per tornare. E perché non sei rientrato a Milano, da Roma? Ma chi te lo fa fare? Hai tanti di quei punti sulla Cartafreccia che potresti comprarti un vagone. Anche perché il vagone è, in effetti, una propaggine degli uffici dove lavori, e la domanda resta: perché? E perché in tutti questi viaggi in treno di riempi le tasche dei biscotti di cui vieni omaggiato? Le tue tasche sembrano le guance di un criceto, dopo quattro giorni così.

Ecco, un posto. Ah, no, è quello di prima. Fa niente, la metto sulle strisce. Ho i minuti contati. Quasi corro fino alla porta del palazzo, apro e accendo la luce. Volo su una rampa di scale, infilo la chiave, un secondo e sarà dentro ma già sento il coro di “Papà”. Non faccio nemmeno in tempo ad aprire che tre teste bionde mi si precipitano addosso.

Alessandro è più grande e mi vuole raccontare la storia della macchina rimasta incastrata sotto le sbarre del treno; Anna letteralmente vola tra le mie braccia con il sorriso più bello e sdentato che si possa avere a neanche due anni; Francesco si avvicina guardingo, ripetendo “Papà, papà, papà” come per assaporarne il suono, poi mi tocca il naso, e tocca il suo a rivendicare un’identificazione.

Dietro, c’è il sorriso di Sara, mia moglie. E’ il suo sorriso a farmi capire che sono a casa. Che le corse, gli affanni, la fatica posso lasciarli fuori dalla porta. Ora tocca a me spogliare, lavare, rivestire i nanetti, e ho intenzione di godermeli tutti questi minuti che si sommano fino a fare quell’ora che è il motivo per cui accumulo chilometri su chilometri, per poter essere qui in questo momento e per esserci anche domattina, per leggere le favole della buonanotte, per cantare la canzoncina che finisce con “questa notte è per voi” e per aprire la finestra ed elencare le cose che vediamo, dal fiume alle case, dalle antenne al cielo, e augurare assieme a loro “buongiorno mondo”.

Per esserci la prima volta che diranno papà all’inizio della giornata e l’ultima volta che lo faranno prima di dormire. Quel che c’è in mezzo non conta.

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