In finanza da Londra a Francoforte c’è un prolema che non trova soluzione

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A un secolo esatto dalla conquista del voto per le donne, il Regno Unito si rivela un Paese non poi così equo. Secondo dati elaborati dal Financial Times, la discrepanza tra il salario di uomini e donne britannici è più alta di quella di molti altri paesi dell’OCSE, compresa l’Italia, con la quale lo scarto con il valore mediano del Regno Unito è di circa 10 punti percentuali.

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Nel settore finanziario britannico, tra i peggiori nel Paese secondo questa misura, e secondo dati resi pubblici per la prima volta quest’anno, le donne ricevono in media 78 centesimi per ogni sterlina pagata agli uomini, e meno di 50 centesimi in certe banche di investimento; i valori peggiorano ulteriormente quando si considerano i bonus discrezionali di fine anno. Il settore che notoriamente paga cifre esorbitanti ai suoi “top performers”, e attrae talento da tutto il mondo, distorce fortemente e negativamente le statistiche nazionali.

Che fare? Si potrebbe suggerire l’introduzione di quote di genere. Dopo tutto queste hanno avuto esiti più che positivi in Italia, dove la rappresentanza femminile nei consigli di amministrazione è passata dal 7% circa nel 2011 all’attuale 33% – cosa “impossibile” senza l’imposizione del legislatore, secondo Paola Profeta, docente al dipartimento di scienze sociali e politiche dell’Università Bocconi. E non si tratta solo di numeri più alti. Con un gruppo di ricercatori, Profeta ha esaminato i curricula dei membri dei consigli di società italiane quotate – oggetto della legge che richiede il raggiungimento di determinate percentuali per tre rinnovi consecutivi del consiglio a partire dal 2012 – notando una migliore qualità dei partecipanti.In passato, nei consigli c’erano “sempre gli stessi nomi, in genere di una certa età e non necessariamente i più competenti” riferisce la docente, che aggiunge: “Abbiamo esaminato i curricula di tutti i membri dei consigli di amministrazione, prima e dopo l’introduzione delle quote, e abbiamo visto dei miglioramenti [significativi].”

L’esperienza di altri Paesi, però, evidenzia le difficoltà dell’imposizione normativa. In Francia, per esempio, l’obbligo di raggiungere la prestabilita quota di genere ha portato in alcuni casi alla riduzione del numero totale di consiglieri per migliorare artificialmente le percentuali femminili. In Norvegia, Paese pioniere al riguardo, alcune società hanno preferito rinunciare alla quotazione in Borsa pur di non dover adempiere alla richiesta del legislatore. Pressoché ovunque i critici delle quote di genere protestano contro il fenomeno delle cosiddette ‘golden skirts’ – termine irritante che descrive la pratica di assegnare ad un piccolo gruppo di donne molteplici cariche anziché  allargare la ricerca a nuovi nomi femminili, eludendo in questo modo il principio della legge. Al momento, oltre a Italia, Francia e Norvegia, anche il Belgio ha introdotto quote di genere che puniscono il mancato adempimento; Germania, Spagna e Paesi Bassi richiedono quote ma non prevedono sanzioni.

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Nel Regno Unito, invece, ci sono solo raccomandazioni. Qui, infatti, si predilige iniziative a carattere privato piuttosto che imposizioni dall’alto – il tema delle quote è particolarmente scottante oltre Manica. Fortunatamente tali iniziative non mancano e grande enfasi viene posta sulla riduzione degli effetti dei pregiudizi di genere, particolarmente ardui da eliminare quando inconsci.

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Iris Bohnet

Iris Bohnet, docente alla Kennedy School of Government dell’Università di Harvard, e membro del consiglio di amministrazione della banca svizzera Credit Suisse, dice che è più facile eliminare i pregiudizi lavorando sulla struttura, sul come si fanno le cose, che non sugli individui. Per esempio, nonostante negli Stati Uniti si spenda tra gli 8 miliardi di dollari e i 14 miliardi di dollari all’anno in training sulla diversità, l’efficacia di tali attività non è stata provata. La semplice anonimizzazione dei candidati ad una certa posizione, invece, può ottenere grandi risultati. Bonhet porta ad esempio l’aumento del numero di donne nelle grandi orchestre americane grazie alla semplice introduzione di un paravento che separa chi si presenta alle audizioni dagli esaminatori, impedendo loro di identificare i partecipanti. A seguito di questa semplice modifica la percentuale femminile è passata dal 5% degli anni ‘70 all’attuale 40%.

Allo stesso modo molti istituti finanziari stanno iniziando ad eliminare i nomi dai curricula e ad includere almeno una donna nei vari comitati di assunzione in modo da offrire un punto di vista diverso al gruppo. Al momento delle assunzioni, infatti, le cose sono già migliorate e uno studio a iniziativa del governo inglese ha preso atto che tra le posizioni più junior c’è parità tra i numeri di donne e quelli degli uomini. Una volta assunte, e quindi visibili, però, le donne sembrano imbattersi in una serie di ostacoli verso posizioni più senior e remunerazioni più alte.

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Jayne-Anne Gadhia

L’amministratrice delegata della banca Virgin Money, Jayne-Anne Gadhia – una delle poche donne al mondo ad aver raggiunto questo ruolo – si è spinta oltre e ha recentemente introdotto un modello che identifica eventuali anomalie derivanti dalla valutazione, soggettiva, dei manager sulla performance dei propri subordinati e, quindi, sulle decisioni riguardanti i bonus. Ogni risultato che appare statisticamente dubbio – come può essere una spropositata differenza di remunerazione a favore di uno dei due sessi – viene riesaminato.

Le prime analisi sui bonus sono state tanto sorprendenti quanto inaccettabili, dice Gadhia, che “rispedisce’” ai vari manager tutte le proposte di remunerazione che cadono al di fuori di una distribuzione statisticamente normale tra i generi. Da anni sostenitrice della causa, Gadhia ha guidato lo studio sulla presenza di donne in posizioni di comando nel settore finanziario britannico, lanciato nel 2016 a richiesta del governo.

Niente di più persuasivo del sapere che il capo non solo brandisce lo slogan della parità di genere ma agisce per correggere gli squilibri.

Con o senza l’introduzione di quote, il cambiamento verso la parità di genere deve essere forzato, nel Regno Unito e altrove. Se non da imposizioni legali – che possono creare una serie di indesiderati effetti collaterali – questo deve partire dalla leadership delle società in cui tali disparità avvengono. Indipendentemente dal fatto che a capo dell’organizzazione ci sia un uomo o una donna.