Tra ricerca e attivismo: l’arte dell’illustratrice italo-nigeriana Diana Ejaita

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«Per fare arte devi innanzitutto essere sincero con te stesso perché soltanto così anche gli altri potranno ritrovare una parte di sé nella tua storia»: queste le parole di Diana Ejaita, illustratrice e designer italo-nigeriana oggi di base a Berlino. Nata nel 1985 a Cremona da madre italiana e padre nigeriano, Diana ha dapprima trovato nell’arte una via per superare il trauma e la rabbia di un’infanzia e di una giovinezza vissute in Italia senza mai sentirsi accettata per via del colore della sua pelle. Oggi quella stessa arte è diventata uno strumento di lotta e di impegno politico contro il razzismo e la discriminazione.

diana-ejaitaSebbene viva a Berlino da dieci anni, Diana sostiene di non avere una base vera e propria. «Cerco di non legarmi troppo ai luoghi. Amo lavorare in modo itinerante. Con Berlino non ho un rapporto simbiotico, forse perché non è la città che ho scelto, ma in cui sono capitata e che a poco a poco si è trasformata in casa mia semplicemente perché ci ritorno sempre. Al momento qui sento di avere la libertà di essere e di creare ciò che desidero» ci racconta.

Nella capitale tedesca e in giro per il mondo Diana realizza illustrazioni e disegna capi d’abbigliamento per il marchio WearYourMask, da lei stessa fondato nel 2014. Le sue origini costituiscono il motore della sua arte che si nutre di tradizioni, simboli e motivi africani. Racconta Diana: «A Cremona ero la seconda bambina mulatta della città. Per tutta la mia infanzia e giovinezza in Italia non mi sono sentita accettata né rappresentata in quanto bambina e ragazza di colore. Essere i primi è sempre difficile. Per questo sono partita per la Francia subito dopo il liceo. Avevo 19 anni ed ero piena di rabbia». A Rennes Diana frequenta l’Accademia di Belle Arti. Qui si sente da subito libera e in pace con se stessa, complice l’ambiente universitario giovane e internazionale. «Sebbene abbia disegnato sin da bambina, soltanto dopo la mia partenza ho cominciato a domandarmi di cosa volessi parlare veramente. Così ho iniziato a concentrarmi sul tema delle mie origini come se fosse una sorta di cura, una terapia che mi aiutava a comprendere, rielaborare e trasformare le difficoltà vissute in qualcosa di nuovo» così Diana.

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Durante il successivo periodo di studio a Braunschweig, in Germania, Diana inizia a svolgere ricerche più approfondite sulla cultura del padre: «In Nigeria sono stata soltanto una volta da bambina con i miei genitori. Di conseguenza, finché non mi sono decisa a intraprendere degli studi in merito, tutto ciò che sapevo a riguardo lo avevo assimilato attraverso le storie di migrazione, i racconti di mio padre o semplicemente per intuizione. Quel mondo mi appariva lontanissimo, sebbene sia sempre stato presente nella mia vita. A Braunschweig ho iniziato a lavorare con lo Nsibidi, un sistema di ideogrammi nigeriani tradizionalmente usati da sciamani e vietati alle donne. Così il mio stile ha cominciato a prendere forma e con il passare del tempo ho sviluppato simboli sempre più miei, in particolare legati alla natura e alla femminilità».

3Gradualmente l’arte di Diana si allontana così dal valore terapeutico per assumerne uno fortemente politico. Un esempio di questa evoluzione sono le illustrazioni dedicate alla raccolta di poesie Blues in bianco e nero di May Ayim, scrittrice e attivista tedesca di origini ghanesi: «Al centro dell’opera di Ayim c’è la problematica della ricerca identitaria, dell’essere “birazziale” e dell’accettazione in un Paese bianco che non ti riconosce. Durante la mia infanzia in Italia mi sono a lungo chiesta chi potesse rappresentarmi. È stato difficile perché non avevo nulla e nessuno con cui confrontarmi e nemmeno le persone attorno a me, per quanto mi volessero bene, sono riuscite a trovare una risposta a questo interrogativo. Ritengo che la rappresentazione sia fondamentale e oggi cerco di fornire modelli attraverso la mia arte affinché ciò che ho vissuto io non si ripeta».

2Parallelamente alle illustrazioni Diana porta avanti il progetto WearYourMask, una linea di abbigliamento da lei stessa ideata: «Sono molto affascinata dalla tradizione dell’Africa occidentale in cui si utilizza il tessuto come una sorta di libro per tramandare storie di generazione in generazione. Su questa idea si fonda WearYourMask. Su abiti dai tagli semplici, classici e minimal stampo simboli della tradizione africana con la tecnica della serigrafia e creo effetti ottici attraverso la ripetizione dei motivi. In questo modo cerco di trovare un equilibrio tra forze, un obiettivo che mi prefiggo spesso e che si ricollega al tema dell’equilibrio tra due culture. Per lo stesso motivo amo utilizzare il bianco e nero». Di recente Diana ha portato WearYourMask anche in Italia, nella sua città natale: «Ho realizzato un progetto fotografico con modelle di colore che indossavano i miei tessuti con simbologie africane in uno degli edifici di epoca fascista di Cremona. Il contrasto bizzarro che risulta dagli scatti è per me una forma di attivismo. Anche questo progetto è legato a doppio filo con la mia storia e con uno dei maggiori conflitti che ho vissuto: il mio bisnonno fu infatti l’ingegnere che in epoca fascista progettò diversi palazzi cremonesi».

In futuro Diana conta di essere più presente in Italia: «Prima tornavo soltanto per fare visita alla mia famiglia e appena mi era possibile scappavo di nuovo. Ora il rientro è più pacifico perché non mi sento più sola e sono riuscita a risolvere i miei conflitti. Inoltre credo che i tempi per agire sul posto siano maturi. Considerati gli ultimi drammatici sviluppi della politica italiana, mi sento in dovere di collaborare con la comunità afro-italiana e con quel movimento artistico di seconda generazione che si sta formando per lottare insieme per un cambiamento. Stare lontana sarebbe una scelta codarda».

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