Il burkini: da vietare o da esibire in passerella? Coerenza, signori…

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Più che di spiagge, è tempo di piste da sci. Ma le novità legislative di Ginevra riportano bruscamente il tema alla ribalta: burkini sì o burkini no? Il Consiglio comunale della città svizzera ha appena approvato (con 41 favorevoli e 30 contrari) la norma che impedisce la copertura totale alle donne che vogliono nuotare nelle piscine locali. Più precisamente, si può usare qualsiasi costume che: non scenda sotto il ginocchio e lasci completamente scoperte le braccia. Ragioni igieniche, dice la legge.

E’ giusto, è sbagliato? Burkini sì-burkini no è una scelta difficile. Pertiene alle coscienze, dipende da dove ciascuno di noi fissa la linea di demarcazione fra il rispetto dell’altro e il rispetto delle proprie leggi. Non mi voglio sottrarre al dibattito, e personalmente dirò che trovo giusto che ognuno usi il costume che gli pare. Se tu non obblighi me a indossare il burkini, io non obbligo te a rinunciarci. Ma la questione qui è un’altra e va ascritta alla voce “coerenza”. Un bene rarissimo, di questi tempi.

Da un lato infatti ci sono i cittadini di Ginevra, preoccupati per la loro salute fisica e – forse ancor più, diciamolo – per quella culturale. Questi cittadini sono in buona compagnia: nel luglio del 2016 la Francia fu il primo Paese occidentale a vietare il burkini sulle sue spiagge, salvo fare marcia indietro esattamente un mese dopo perché i giudici francesi considerarono il divieto una palese violazione delle libertà fondamentali. Voci contro il burkini si sono levate anche in Germania e in Austria.

Dall’altro lato delle stesse strade però, quelle stesse vie occidentali dello shopping, troviamo legali vetrine che legalmente espongono burkini d’alta gamma, fabbricati con tessuti idrorepellenti, elasticizzati e persino antibatterici, con buona pace degli igienisti di Ginevra. La stilista Raffaella D’Angelo ne aveva fatto sfilare uno l’anno scorso, alla Milano Fashion Week. Anche Marks & Spencer li produce e li commercializza dal 2016, lo stesso fa la giapponese Uniqlo. Quanto a Dolce & Gabbana, se non proprio un burkini, quanto meno hanno firmato una collezione black & white di hijab e avaya, la lunga veste tradizionale delle donne musulmane.

Il perché di questo interesse del mondo della moda per burkini e dintorni è presto detto: il mercato dell’abbigliamento Sharia-correct – cioè che rispetta i dettami della religione musulmana – nel mondo vale qualcosa come 230 miliardi di dollari all’anno. Più dei mercati della moda tedesca, inglese e indiana messi insieme. Non solo, ma data la capacità di spesa media di Paesi come gli Emirati arabi, il Qatar o l’Arabia saudita, quello dell’hijab e del burkini è anche un mercato di fascia alta.

Burkini sì o burkini no, allora? Ne possiamo parlare. L’unica cosa che non si dovrebbe fare è burkini-un-po’-sì-e-un-po’-no: sì quando per le case della moda c’è da guadagnarci, no quando è la volta che a guadagnarci siano i politici, giocando la carta del populismo.