Quando il part-time dura 8 ore…

“In genere sono in ufficio dalle 8 alle 16-16.30, quando riesco a fare una pausa mangio un panino in una mezz’oretta”.

“Ah, quindi fai una specie di part-time?”

“…No, veramente lavoro 8 ore al giorno, ma preferisco iniziare presto al mattino così posso vedere i miei figli dopo la scuola”.

“Mah, da noi prima delle 19,30 nessuno esce, neanche le mamme, non c’è differenza con gli uomini”.

“…”

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Un colloquio come un altro. Ma di quelli che fanno riflettere. Lo ha riportato una mamma che lavora, in un gruppo Facebook per genitori. Ha ricevuto centinaia di “like” e di commenti, per lo più di solidarietà da altre mamme lavoratrici. Molti anche i commenti un po’ amari, di mamme che questo “privilegio” di lavorare con orari adatti alla vita di un genitore non ce lo possono avere.
Perché, parliamoci chiaro, il problema della conciliazione parte da qui, dalla mentalità e dalla cultura del lavoro in cui viviamo immersi. In molti uffici, per esempio, vige ancora la “regola” non detta secondo cui più ore si passano in ufficio più si è meritevoli e produttivi. Non conta come si lavori o cosa si faccia in concreto, si viene valutati per la propria presenza fisica sul luogo di lavoro. Per non parlare poi di chi lavora come consulente o come libero professionista: non esistono sabati e domeniche, non esistono serate, non esiste non essere rintracciabili al cellulare o via mail. A meno che non ci si possa permettere di mettere dei limiti e confini molto precisi, e quindi dire dei no. Ma sono casi rari.
Il binomio “più ore lavorate-più produttività” non ha alcuna ragion d’essere, come si ripete da più parti (qui, per esempio, i dati dell’Ocse) e come spiega in maniera dettagliata e documentata un libro dello scorso anno che ha fatto molto parlare, di un professore della Standford University e consulente nella Silicon Valley, Alex Soojung-Kim Pang, “Rest: why you get more done when you work less” (qui una recensione del Guardian) e come hanno dimostrato molti esperimenti (riusciti) negli ultimi anni in Svezia di giornate lavorative di sei ore. Oltre ad essere quindi un’abitudine poco efficiente, rende del tutto inutile aprire qualsiasi discussione sulla possibile conciliazione famiglia-lavoro. La questione però è innanzi tutto culturale, perché una cultura del lavoro come quella dell’esempio riportato dalla mamma su Facebook che definisce part-time una giornata lavorativa di 8 ore.
C’è poi un altro aspetto che mi ha colpito nella conversazione. Quel “non c’è differenza con gli uomini”. Come se gli uomini non potessero essere anche padri che vanno a prendere a scuola i figli, per esempio. Come se per gli uomini fosse scontato che si sta a lavoro finché fuori è buio pure d’estate. Come se lavorare “solo” 8 ore fosse un “privilegio da mamme”, quindi che non spetta alle donne che madri non sono o agli uomini, a prescindere che siano padri o meno. Il tempo liberato dal lavoro inutile, prolungato e improduttivo, che si trascina in giornate infinite non ha a che fare solo con il tempo per i figli, ma ha a che fare con il benessere personale, con la cura di sé, con la possibilità di occuparsi dei propri hobby e delle proprie passioni. Trovando magari spunti, energie e creatività che a un lavoro possono portare solo benefici. Ma nel momento lavorativo attuale nel nostro Paese sembra di parlare di favole che poco hanno a che fare con la realtà, purtroppo. Trasferirsi in Svezia potrebbe essere la soluzione. Intanto, mentre prepariamo il trasloco, forse è ora di iniziare a lavorare e comportarci in modo da cambiare questa arcaica cultura del lavoro.
  • Koila |

    Risposta completamente senza senso. Ma hai capito l’articolo?

  • sabina |

    Non potrei essere più d’accordo. E anche se si corre per incastrare tutto, credo che (pur non essendo l’optimum) allo stato attuale sia la soluzione “meno peggio”.

  • GiuliaS |

    Sono da anni assunta con un contratto a tempo indeterminato part-time, mentre in realtà faccio regolarmente 8h al giorno. All’inizio l’ho accettato perchè aspiravo all’indeterminato, a fare carriera con la speranza che le cose potessero cambiare con il tempo. Invece no, sempre più responsabilità, stesso contratto e stesso stipendio da 5 anni. Adesso che voglio cambiare, rischiando anche di dover ricominciare da zero, con un contratto diverso, ai colloqui mi sento dire “perchè vuoi cambiare? mi sembra che tu abbia un’ottima posizione”. In pratica la folle sarei io.

  • Chiara |

    Questo è uno dei motivi per cui ho lasciato il mio sicurissimo e ambitissimo posto fisso a tempo indeterminato per diventare una precarissima libera professionista freelance.
    È vero, lavoro nei weekend e a volte anche di notte, ma quasi tutte le mattine riesco ad accompagnare mio figlio all’asilo lasciandogli usare la sua bici, anche se ci vuole quasi un’ora. Quasi tutti i pomeriggi riesco ad andare a prenderlo, a portarlo al parco o a fare una torta con lui. Lavoro sempre 8 ore, ma vengo percepita come una mamma “casalinga”, non come un’imprenditrice.
    Non mi importa. La qualità di vita è quello che conta. Più della posizione sociale, del reddito, di tutto.

  • Barbie |

    È colpa di questa collega,quindi? Perché per una volta non fate,invece, un’analisi personale? Finché gli insuccessi dipendono dagli altri e i successi dal proprio essere dei geni, non si può crescere.

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