Il look giusto sui banchi di scuola? Una lezione per il domani

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A Exeter, una città nel sud del Regno Unito, lo scorso mese di giugno decine di ragazzi della Isca Academy si sono visti negare dalla scuola il diritto di indossare i bermuda nonostante il caldo insolito (mentre alle ragazze, che già indossano la gonna, era stato concesso di non mettere le calze). Così, un giorno si sono presentati in massa indossando le gonne in tartan delle loro compagne. Una protesta che ha avuto una certa eco mediatica, tanto da spingere la direzione dell’istituto a valutare una modifica del regolamento. Ma nel Regno Unito c’è anche chi applica i regolamenti con più rigidità, come è avvenuto a gennaio scorso all’Ebbslfleet Academy di Swanscombe. La preside ha deciso infatti di rispedire a casa parecchie alunne che si erano presentate a scuola, dopo le vacanze natalizie, con un make up vistoso e gonne dell’uniforme più corte di quanto stabilito.

Non si tratta di casi isolati. Dietro questi episodi si nasconde un vero braccio di ferro tra scuola e famiglie: tra chi sarebbe per una maggiore tolleranza o contesta la spesa – considerata cospicua – per il guardaroba scolastico, e chi invece sostiene l’utilità dell’uniforme e la necessità di far rispettare i regolamenti. Un’opinione quest’ultima piuttosto diffusa in tutto il mondo anglosassone. Nelle scuole inglesi (pubbliche e private), infatti, i ragazzi fino ai 16 anni sono tenuti a indossare una divisa, e anche successivamente, l’ambiente scolastico – diversamente da quello italiano – prevede norme di abbigliamento che tutelano una certa formalità.

L’uniforme scolastica è anche presente in tantissimi Paesi ex colonie (inglesi e non solo) dove le disparità sociali sono ancora molto evidenti, e dove far indossare a tutti una divisa permette, tra l’altro, di azzerare le differenze di status, aiutando gli studenti a inserirsi e a sentirsi parte della comunità, come spiega questo Video di EuroNews.

Perché la differenza poi è questa: la divisa, abbattendo le differenze di abbigliamento, cerca di spostare l’attenzione sulla condivisione dei valori (e dei doveri) e sulla creazione di un senso di appartenenza. Mentre l’assenza di una divisa sposta l’attenzione sul singolo che sceglie come vestirsi e come comportarsi, esercitando quindi il diritto di essere se stesso.

Ed è quello che succede in Italia (ma anche in Francia o in Spagna), dove, tranne eccezioni, non esistono regolamenti specifici e i ragazzi a scuola si vestono come vogliono. Ma se fino a pochi decenni fa c’era comunque una certa sensibilità collettiva, attualmente il tema è molto meno sentito. Così, quando qualche preside, come è successo lo scorso giugno a Schio in provincia di Vicenza, cerca di imporre “un abbigliamento consono al contesto scolastico”, scoppiano bufere.

Ma è giusto che i ragazzi, a scuola, possano vestirsi esattamente come desiderano? Se guardiamo a come si muove la società, sempre più orientata alla tutela dell’individualità e delle diversità, allora il fatto che gli studenti possano esprimere la propria personalità anche in ciò che indossano a scuola sembra naturale. Tuttavia i ragazzi non possono ignorare il fatto di trovarsi in un ambiente con delle regole, in una comunità che condivide principi e obiettivi. E quindi vestirsi dev’essere più che altro un atto di libertà consapevole: non uniformarsi quindi ma sapersi comunque adeguare al contesto. Una piccola grande lezione che li prepara al mondo adulto e al mercato del lavoro.