Quanti pensano di fare un “bullshit job”? Quasi uno ogni due

lavoroRosanna inizia a lavorare alle 19, quando tutti hanno lasciato gli uffici. Le stanze sono deserte e lei si muove attenta fra le scrivanie. Spolvera i ripiani e le tastiere dei computer, senza spostare un foglio, una biro o un’agenda. Spolvera anche le cornici con dentro foto di famiglia, oggetti portafortuna e rimasugli di altre vite lavorative che si ammonticchiano sulle scrivanie con gli anni e i traslochi. Lo fa canticchiando tutte le hit di San Remo degli ultimi 40 anni. Rosanna non pensa che il suo sia cosa da poco. Rosanna fa al meglio il proprio lavoro notturno, perché chi si siede a quelle scrivanie il giorno dopo possa fare al meglio il proprio.

Nicolò, Nic per i colleghi, arriva in ufficio alle 8. E’ client service operations specialist per un gruppo finanziario internazionale. Ha studiato economia e fatto un master a Londra. Odia i lunedì e passa la settimana ad aspettare il venerdì. Vorrebbe fare altro. Il mercato, però, non offre grandi opportunità. Quando incontra gli ex compagni di università per un aperitivo torna a casa con il bruciore di stomaco e a tratti soffre anche di “mancanza di respiro”, tanto che gira con in tasca il Ventolin.

Stando ai numeri l’insoddisfazione di Nic è ben più frequente del senso di utilità di Rosanna. Già uno studio dell’Harvard Business Review, su un panel di 12mila professionisti, aveva dimostrato come la metà circa degli intervistati percepisse il proprio lavoro come senza senso e significato. Un ulteriore studio, su 230mila persone in 142 Paesi, aveva evidenziato come solo il 13% si dichiarasse soddisfatto del proprio impiego. Mentre nella sola Gran Bretagna quasi 4 intervistati su 10 (37%) giudica il proprio mestiere completamente inutile.

In altre parole, sono davvero in molti coloro che ritengono di fare un “bullshit job“, come lo ha definito l’antropologo David Graeber. Un quadro decisamente desolante considerato che si passa al lavoro otto ore al giorno, senza contare gli straordinari. La tendenza, per altro, sembra in incremento e viene legata, da alcuni esperti, al progressivo scomparire di mestieri “di produzione” a favore di professioni “di concetto”. Uno studio condotto sugli Stati Uniti, ad esempio, ha evidenziato come dal 1910 al 2000 siano andate via via riducendosi i prosti di lavoro in fabbrica, nell’agricoltura e nei servizi domestici a favore della crescita di professioni nel telemarketing, consulenza, amministrazione, servizi finanziari, public relation, marketing, ad esempio. Il tutto a seguito dell’automazione. Ancor più spinta sarà la situazione negli anni a venire considerato che le stime indicano che il 47% degli impieghi negli Usa e il 54% di quelli in Europa sono a rischio per la sostituzione da parte delle “macchine” nei prossimi 20 anni. E c’è chi è arrivato a definire tutto questo il paradosso del progresso: più robot e meno lavori “che abbiano un senso”.

Come possiamo preparare le prossime generazioni a trovare un lavoro e soprattutto a trovare un lavoro che abbia un senso? Ci hanno ripetuto allo sfinimento che saranno fondamentali le competenze “hard” nelle cosiddette STEM (science, tech, engenniring e maths) considerato che solo in Europa ci si attendono 800mila posti di lavoro da coprire nel tech e nel digitale. Ma questo non basta, le “soft skills” sono ritenute sempre più essenziali: capacità di relazione, empatia, creatività, curiosità e flessibilità (Le dieci competenze vincenti sul lavoro nel 2020). E una volta che ai bambini di 5 anni di oggi, che entreranno nel mondo del lavoro nel 2030, avremo insegnato tutto questo forse dovremmo offrire anche l’opportunità di un mestiere non inutile (non tanto nella sostanza, quanto nel percepito). Ma questo richiederebbe un ripensamento ben più complesso del lavoro. E non è da trascurare la provocazione di Marina Salamon, secondo la quale sopravviveranno solo le aziende in grado di far star bene i propri dipendenti.

E’ passata la mezzanotte del giorno di Pasqua. Sono in ferie e mi sono presa il tempo di leggere e scrivere qui. Direi che posso considerarmi parte di quel 13% “fortunato”. Non so se il mio lavoro sia utile, ma non c’è dubbio che mi piaccia.

Buonanotte