Dopo l’Islanda, la Germania approva la legge contro il divario salariale fra uomo e donna. E l’Italia?

workSe più governi scendono in campo per porvi rimedio, vuol dire che il problema esiste. La differenza salariale di genere, testimoniata da diversi studi a livello internazionale, è entrata a pieno titolo nelle agende di lavoro delle istituzioni di diversi Paesi, dopo che l’Unione Europea da anni ha posto l’accento sul tema tanto da creare un progetto ad hoc per sensibilizzare i Paesi membri.

La linea che si sta seguendo, nella maggior parte dei casi, è quella di rendere “visibili” le remunerazioni, secondo il principio che rendere noto il divario sia di per sé già un incentivo a sanarlo. E dopo la legge islandese (in verità ben più restrittiva), ieri è stata la volta della Germaia, che ha approvato la normativa in tema di gender pay gap.

La soluzione tedesca

La Cdu di Angela Merkel festeggia la nuova norma per la riduzione del gap fra gli
stipendi di uomini e donne in Germania. Il Bundestag tedesco ha approvato il 30 marzo una normativa che dovrebbe favorire la riduzione dello scarto di remunerazione. La legge prescrive per le imprese con oltre 200 impiegati di render conto, a chi vuole saperlo, di quanto viene pagato un collega per la stessa prestazione lavorativa. Nel provvedimento sono coinvolte 18 mila imprese tedesche. Mentre circa 4.000 imprese con oltre 500 impiegati dovranno regolarmente fornire dei rapporti proprio sul trattamento salariale, chiarendo quindi quanto gli stipendi siano effettivamente “allineati”.
La misura si è resa necessaria dal momento che lo scarto di stipendio fra uomini e donne in Germania è del 21% circa. In media ogni donna guadagna 4,50 euro meno degli
uomini.

L’imposizione islandese

In Islanda il governo (nel quale metà dei ministri sono donna) ha deciso di fare un passo in più. La legge, approvata poche settimane fa dall’Althingi (il parlamento islandese) e ora pubblicata sulla gazzetta ufficiale, prevede che i datori di lavoro dovranno fornire documentazione sufficiente per ottenere la certificazione ufficiale di azienda o istituzione che davvero rispetta la parità retributiva tra gender. Il controllo del rispetto della gender equality salariale non è, però, solo teorico. E’ stato, infatti, affidato alla Lögreglan (polizia), alla polizia tributaria e anche al reparto scelto delle forze dell’ordine. I controlli inizieranno dal 2018 e termineranno entro il 2022. Nel Paese, di 330mila abitanti, l’occupazione femminile è attorno all’80%, mentre il divario salariale si attesta tra il 14 e il 20%. Le donne da anni scendono in piazza in sciopero in segno di protesta, guidate da The Icelandic Women’s Rights Association.

La via britannica

In Gran Bretagna sta per entrare in vigore (dal prossimo 6 aprile) la regolamentazione 2017 del The Equality Act 2010 (Gender Pay Gap Information, qui i dettagli applicativi), in base alla quale le società private con oltre 250 dipendenti dovranno pubblicare, entro un anno dall’entrata in vigore, i dati relativi alle remunerazioni e ai bonus dei dipendenti (quanto e a quanti) con uno spaccato di genere. Da quest’anno l’obbligo sarà annuale e interesserà 7.960 aziende e 11 millioni di dipendenti, pari al 34% della forza lavoro totale britannica.

La normativa è il frutto del lavoro del Women and Equalities Select Committee, che ha presentato lo scorso anno un report sulla situazione in Uk a seguito dell’impegno dell’allora primo ministro di voler chiudere il gender pay gap innell’arco di tempo di una generazione. In base agli ultimi dati disponibili (aprile 2016) nel lavoro a tempo pieno gli uomini hanno in media una paga settimanale di 578 sterline, mentre le donne si fermano a 480 steline: il 17% in meno.

La “volontarietà” americana

Negli Stati Uniti era stato John F. Kennedy ha firmare nel 1963 The Equal Pay Act. Allora le donne guadagnavano in media 59 centesimi ogni dollaro guadagnato da un uomo. Dopo 50 anni erano arrivate a 77 centesimi. Un progresso troppo lento, secondo l’amministrazione Obama, tanto che nel 2009 il presidente firmò Lilly Ledbetter Fair Pay Act, cui ha fatto poi seguito The White House Equal Pay Gap del 2016. Quest’ultimo, già siglato da oltre 100 società, è l’impegno volontario a dare visibilità delle politiche di remunerazione interne e dei dati relativi agli stipendi.

Certo, lasciare che si aderisca in modo volontario ha il rischio che non ci sia un impegno concreto da parte delle aziende. Ma un nuovo fattore sta entrando in gioco, a cominciare dagli Usa: le richieste degli investitori istituzionali. Non è passata inosservata la notizia che la società di gestioni Pax World Management, con masse gestite attorno ai 4,1 miliardi di dolalri, ha convinto alcune società in cui investe (Goldman Sachs, BNY Mellon, Verizon, AT&T e Qualcomm) a prendere un impegno a favore della parità salariale fra i generi. Un segnale non da poco, per quanti sono quotati a Wall Street. Segnale che potrebbe essere seguito da altri investitori istituzionali.

E l’Italia?

Forse non tutti sano che anche da noi esiste una normativa a riguardo. Si tratta dell’articolo 46 del Decreto Legislativo 11 aprile 2006 n. 198 (ex art. 9 L. 125/91), (modificato dal D. Legislativo 25 gennaio 2010 n. 5 in attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione). Cosa prevede?

1.Le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti sono tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta.
2.Il rapporto di cui al comma 1 è trasmesso alle rappresentanze sindacali aziendali e alla consigliera e al consigliere regionale di parità, che elaborano i relativi risultati trasmettendoli alla consigliera o al consigliere nazionale di parità, al Ministero del lavoro delle politiche sociali e al Dipartimento delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
3. Il rapporto è redatto in conformità alle indicazioni definite nell’ambito delle specificazioni di cui al comma 1 dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, con proprio decreto.
4. Qualora, nei termini prescritti, le aziende di cui al comma 1 non trasmettano il rapporto, la Direzione regionale del lavoro, previa segnalazione dei soggetti di cui al comma 2, invita le aziende stesse a provvedere entro sessanta giorni. In caso di inottemperanza si applicano le sanzioni di cui all’articolo 11 del decreto del Presidente della Repubblica 19 marzo 1955, n.520. Nei casi più gravi può essere disposta la sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente goduti dall’azienda.

Il termine per presentare gli ultimi rapporti sulla situazione del personale è scaduto il 30 aprile 2016. Forse eravamo distratti e non ci siamo accorti di questa marea di informazioni. Resta il fatto che in Italia il divario di remunerazione, fra uomini e donne è del 10,9%. Una differenza che sale al 36,3% fra i laureati.

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