Perchè il diritto alla libertà di scegliere è limitato per il genitore di un bambino disabile?

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«Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant’è profonda la tana del Bianconiglio»  Morpheus in Matrix, 1999, regia di Lana Wachowski e Lilly Wachowski

E’ il dogma ufficiale di tutte le società industriali occidentali e recita: “Se vogliamo massimizzare il benessere dei nostri cittadini, il modo per farlo è massimizzare la libertà individuale.”  La libertà di scegliere tra mille opzioni è talmente radicata nelle nostre vite che nessuno si sognerebbe di metterla in discussione, tanto siamo abituati a sentirci chiedere da Mc Donalds domande ricorrenti come ‘Ketchup, senape, maionese? Mangia qui o da asporto? Con o senza patatine?. E anche in ambito salute la questione non è diversa: il modello dell’assistenza sanitaria occidentale ci ha portato a moltiplicare le alternative di cura in nome dell’autonomia del malato, ci permette di scegliere tra la terapia A o B scaricando la responsabilità di prendere decisioni sul paziente o su chi per lui ne fa le veci.

Eppure quando si parla di famiglie con bisogni fuori dalla norma, in cui è il genitore a dover scegliere un percorso educativo e di cura per un figlio disabile, le cose si complicano e non poco.

Le famiglie che conosco io non hanno molte opzioni tra cui scegliere e la valutazione per loro del costo-opportunità, l’alternativa a cui devono rinunciare quando effettuano una scelta di un’opzione rispetto ad un’altra, ha implicazioni non solo economiche ma profondamente legate alla sfera emotiva.

Una famiglia ‘tipica’ può decidere dove mandare a scuola il proprio figlio, portando avanti valutazioni legate a fattori logistici (la scuola è vicina o lontana da casa? È sul tragitto del genitore per andare al lavoro? È collegata da mezzi di trasporto?), al personale docente della scuola (partecipando agli open day per conoscere i dirigenti e il personale di ruolo, per approfondire le peculiarità di quel programma formativo), ai servizi accessori (ha il tempo pieno? offre la possibilità dell’insegnamento delle lingue straniere e di attività sportive nel dopo scuola?), a fattori strettamente economici o di status (scuola pubblica o privata? Metodo Montessori, Salesiani o Gesuiti?).

Una famiglia ‘speciale’ vorrebbe procedere con le stesse valutazioni ma si trova di fronte a priorità più impellenti e a vincoli che qualcuno stabilisce per lei, limitando quindi le proprie possibilità di scelta. L’aspetto logistico che prende il sopravvento è legato soprattutto all’accessibilità delle strutture (presenza di rampe, ascensori, mezzi di trasporto abilitanti), e negli open day raramente si affronta in pubblico il tema degli insegnanti di sostegno (‘Signora, magari ne parliamo privatamente del suo caso.’). Le mamme che conosco io si preoccupano di conoscere se la mensa ha il servizio self-service solo per immaginare come farà il proprio figlio con un braccio solo a portare un vassoio con il piatto ricolmo di minestra.

Le mamme che conosco io non hanno la possibilità di scegliere di cambiare scuola se qualcosa non funziona: non ci si può permettere di scegliere una scuola lontana da casa e dalle strutture riabilitative, una scuola che non è raggiungibile velocemente in caso di crisi del bambino non è un’opzione.

sdg-page-001-1E così si finisce per abbozzare, anche se quella non è la migliore scuola, anche se quella non è la migliore insegnante, sembra tutto un compromesso al ribasso.

E così i bambini che conosco io finiscono per non mangiare la minestra. E per accumulare uno svantaggio molto più grande rispetto ai loro coetanei.

Così avviene per le scelte educative, ma anche per le scelte di cura la situazione non migliora, anzi, con discriminazioni molto più accentuate a livello regionale: famiglie a cui viene garantito un percorso riabilitativo in strutture pubbliche sul territorio (due volte alla settimana di stretching quando va bene, una volta ogni quindici giorni quando va male), famiglie che pagano tutte le terapie privatamente, famiglie costrette a mettere d’accordo vari operatori sul territorio perché non esiste un concetto univoco di ‘presa in carico’ del bambino, meno che mai dei genitori.

Eppure le leggi più o meno ci sono, il diritto all’educazione inclusiva, il diritto al lavoro, i permessi lavorativi per i genitori in situazioni di necessità, l’inserimento negli obiettivi dell’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite.

Quello che manca è piuttosto un’educazione ai problemi legati alle diverse abilità: parlarne e educare fin da piccoli alla conoscenza del diverso può aiutare.