#paroleostili possono fare più male delle botte

img_2631“Fai schifo… ”, “Sei solo un deficiente” , “D., sparati, fallo per noi”…. “I tuoi video sono cazzate… fai più pena della pena”, “… hai rotto il cazzo di spammare spero ti esploda il cellulare in bocca…” “… quelli che ti prendono in giro sono spastici al cervello…”.

Commenti volanti, lasciati nella rete da bambini e adolescenti. Parole ostili che, come erba infestante, crescono qua e là tra un “sei bellissimo”, “ti prego fammi un saluto”, “mi fai tanto ridere e mi fai stare bene”. Per la prima volta DoxaKids analizza i big data testuali tratti dai social network, realizzando un’elaborazione semantica su un enorme numero di commenti lasciati da bambini e adolescenti ai video postati nello scorso mese di gennaio da 50 YouTuber italiani noti, tra i più giovani. Oltre 6 milioni di commenti elaborati, miliardi di parole.

I risultati saranno presentati oggi nell’ambito del convegno “Parole O_stili” il cui intento è riflettere sulle parole nella rete: su quelle che informano, valorizzano, danno fiducia, uniscono e su quelle che invece feriscono, offendono, denigrano. Nella tavola rotonda “Bambini e media”, prevista per questo pomeriggio, approfondiremo i modi nei quali bambini e adolescenti incontrano l’ostilità nella rete, ad esempio nelle forme del cyberbullismo e dell’hate speech (incitamento alla violenza).

“Le parole fanno più male delle botte”, scrive nelle poche righe lasciate alla famiglia Carolina Picchio, prima di togliersi la vita a 14 anni, rivolgendosi a coloro che l’hanno presa di mira sui social network. “Ma a voi non fanno male? Siete così insensibili?”, dice ancora. Non vi è mai un nesso causale semplice tra le parole e un suicidio. Ma le parole possono essere un detonatore, in grado di innescare meccanismi psicologici complessi e imprevedibili e, in quanto tali, non vanno sottovalutate.

img_2630Non sempre purtroppo bambini e adolescenti si rendono conto di quanto le parole possano ferire. Sappiamo bene che il controllo degli impulsi, l’empatia, l’espressione e la modulazione delle emozioni sono il frutto, oltre che dell’educazione, di una maturazione delle aree frontali del cervello che giunge a compimento oltre i diciotto anni.

Alcune caratteristiche del medium tecnologico, poi, sembrano facilitare l’uso di parole ostili. “Ma perché tanta rabbia? Se ci incontrassimo al mercato lei sarebbe bene educato….”, scriveva il giornalista Massimo Russo a un suo follower particolarmente rancoroso. Ma in cosa una piazza virtuale è diversa da un mercato?

Byung-Chul Han, filosofo berlinese, nel suo “Nello Sciame. Visioni del digitale” scrive che la rete è il luogo dell’anonimato, del “non nome” e dunque del “non rispetto”, perché il rispetto è legato ad un nome. Anche lo sguardo, le espressioni del volto, il tono di voce, la postura hanno a che vedere con il rispetto: contrariamente alle interazioni vis a vis, quelle online non consentono di vedere le emozioni scritte sul volto di chi riceve le nostre parole. Possiamo solo fare uno sforzo di immaginazione.

Sempre per sua natura, quello digitale è il medium dell’eccitazione: un medium ad alto contenuto emotivo. A differenza di una lettera, che abituava a disporre le parole in un arco temporale dilatato, la scrittura di un sms o di un post è una fiammata istantanea.

Qual è il rischio? Che queste parole e questi stili di conversazione – così frequenti nelle interazioni in famiglia, a scuola, nei contesti sportivi, in tv e anche su Internet – da modalità occasionali si trasformino in consuetudini. Che le mappe cognitive dell’ostilità si rafforzino, che si inneschino processi di “desensibilizzazione” al peso delle parole, che l’offesa diventi un esercizio ludico, uno strumento lecito, con chiunque e per qualunque obiettivo. Anche solo per ottenere quella visibilità che tanto conta nella rete:  “alza la voce e tutti si gireranno a guardarti”.

Cosa fare per contenere l’ostilità “che mira a far male” presente nella rete? C’è chi ritiene che la parola sia sempre libera, anche quando sia veicolo d’odio. Altri chiedono a gran voce più limiti, più regole e più controllo. Certo non si può negare che ciò che si vede in Internet abbia una sua forza “modellante”. Per contrastare la parola ostile e gli stili di conversazione improntati all’offesa ci appare necessario un impegno educativo e culturale nella gestione dei rapporti individuali. Impegno che va ben oltre il virtuale.

Il primo passo è educare i bambini a prestare attenzione alle parole – e alle immagini – che usano, a capirne il significato e a considerare l’effetto che hanno sugli altri, allenandosi ad uno sforzo di immaginazione dove tra l’Io e l’altro vi sia uno schermo. Aiutarli a concedersi del tempo per riflettere prima di digitare. Ad accettare che si può sbagliare e si può riparare: le lacerazioni inferte (o subite) per mezzo di parole ostili si possono ricucire.

Ma poiché è ostile non solo la parola ma anche il silenzio – di chi assiste e non fa nulla – è altrettanto importante insegnare loro a stigmatizzare certe forme di ostilità, online e offline, a non girare le spalle, a non andare dietro alla violenza, abituandoli (e abituandoci) al coraggioso esercizio della controparola – al “dovere di controparola” – rispondendo all’odio e difendendo chi ne è vittima. E dunque, nel flusso delle espressioni ostili che scorre nella rete, seminare con pazienza, parole cariche di ironia, gentilezza e rispetto, che avvicinano, spengono inutili fiammate, trasformano i nemici in persone.

Un giovane follower, tra quelli inclusi nello studio di Doxa, su Youtube commenta: “… hai assolutamente ragione… l’odio non porta a nulla e alcune critiche che ti rivolgono sono solo volgari e insensate…” E’ un bell’esempio. Di come il coraggio della controparola molti ragazzi sappiano già come usarlo.

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