Lo sguardo (al) femminile. Una mostra in Triennale

A cosa pensano le donne quando guardano? E cosa sentono? È differente la visione rispetto a noi uomini, come sembra affermare la ricchissima mostra L’altro sguardo alla Triennale di Milano fino all’8 gennaio?

Non chiedetemi risposte (secondo me contano più le domande), ma se volete un consiglio non perdete questa occasione di un viaggio affascinante in circa 150 foto e libri fotografici attraverso 50 anni di fotografia italiana al femminile. La mostra presenta la collezione di opere acquistate – in un tempo eccezionalmente breve per la complessità della raccolta – da Donata Pizzi, che, dopo aver sperimentato vari mestieri della fotografia (archivista all’Espresso, fotoreporter, responsabile di agenzia fotografica), ha deciso di creare una collezione che è atto d’amore e di protesta, frutto di un progetto lucido e appassionato: rivendicare alla fotografia il posto che deve avere nel sistema delle arti e che in Italia stenta tuttora a esserle riconosciuto e, allo stesso tempo, far conoscere le importanti fotografe del nostro paese, lasciate di solito ai margini di questo racconto.

La mostra ci accoglie con l’installazione Parlando con voi, 30 video interviste ad altrettante artiste, un’idea di Giovanni Gastel che ci sottrae alla pigrizia dello sguardo da visitatore seriale affamato di immagini incorniciate, mettendo in primo piano le persone e le loro storie, quelle che si portano dietro e quelle che inseguono con le immagini.

aola Agosti, Salvador Gilli con la figlia Gloria, Las Varillas 1990

Paola Agosti, Salvador Gilli con la figlia Gloria, Las Varillas 1990

Il percorso ha un andamento in quattro movimenti, disposti cronologicamente, cominciando con “Dentro le storie”: è il 1965 quando Lisetta Carmi inizia un memorabile e per l’epoca scandaloso reportage sui travestiti a Genova. È il segnale che le fotografe mettono gli occhi sulle piaghe del paese: è il ’68 e Carla Cerati esce di casa (stufa di fare solo la mamma) con la macchina fotografica e scandaglia la realtà atroce dei manicomi. Così nasce Morire di classe (con Berengo Gardin), un libro che costringe l’opinione pubblica a guardare quel che sembrava invisibile, aprendo la strada che porterà la Legge Basaglia (’78) e l’abolizione dei manicomi. È la violenza della mafia negli scatti coraggiosi di Letizia Battaglia a Palermo, sono terrorismo, scandali finanziari e P2 che Giovanna Borgese racconta nella sfilata dei protagonisti sui banchi di tribunale; è ancora la miseria delle Langhe rurali di Paola Agosti, che segue poi il percorso dei numerosissimi emigrati piemontesi in Argentina.

“Cosa pensi del femminismo” testimonia l’uso militante della fotografia, strumento di denuncia dello sguardo maschile dominante, cui le donne reagiscono per affermare un’identità oltre gli stereotipi, usando sovente un’ironia salace: come Agnese De Donato, che nel numero zero della rivista “Effe” sbatte in copertina un ragazzo, a petto nudo con un’improbabile pelliccia e lo sguardo languido, come di solito si fa con le belle donne; o come nel finto fotoromanzo di Nicole Gravier, con la donna innamorata e sospirante alla mercé dell’uomo conquistatore, o nel geniale portacipria con specchio, che Paola Mattioli ricopre incollandovi foto del movimento femminista.

Anna Di Prospero, Self portrait with my mother, 2011

Anna Di Prospero, Self portrait with my mother, 2011

La terza sezione “Identità e relazione” illustra i due poli attorno cui gravitano le fotografe degli anni ’90, ormai consapevoli del proprio ruolo e pronte a investigare la trama di storie affetti e legami quotidiani. Come lo struggente lavoro di Moira Ricci, che inserisce se stessa nelle vecchie foto di famiglia, così da esserci nel viaggio di nozze dei genitori o nelle loro foto di classe, per ricucire il filo del rapporto prematuramente troncato con sua mamma. O la bellissima immagine di comunicazione della mostra di Anna Di Prospero: sua madre le chiude gli occhi con le mani, costringendo la figlia ad affidarsi a lei per ascoltare il racconto del mondo fuori dalla finestra, magnificamente intrecciando memoria privata e storia collettiva, sguardo sul mondo e su se stessi.

Infine, in “Vedere oltre”, siamo ai giorni nostri, quando crollano definitivamente gli steccati tra fotografia e arte e si possono sfruttare le risorse espressive del digitale, come fa Silvia Camporesi, ricreando sulle orme di Böcklin una visionaria isola dei morti, o si ritorna in camera oscura, tra acidi e solventi, come Monica Carocci con le sue stampe in bianco e nero, sporche e segnate come naufraghi che abbiano attraversato epoche remote e territori fantastici prima di arrivare a noi, portandoci il prezioso bagaglio di un altro sguardo.