Piccola (grande) agenda per la ministra Lorenzin

Il Ministro della Salute Beatrice Lorenzin a Palazzo Chigi durante la conferenza stampa dopo il Consiglio dei Ministri, Roma 14 marzo 2014. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Beatrice Lorenzin

La ministra Beatrice Lorenzin e la sua fissazione per l’infertilità (o per la fertilità?) non potevano lasciarmi indifferente. O meglio la sua imperizia nell’affrontare la questione. Centrale, cruciale. Centrale per le migliaia di individui che ogni giorno, tutti i giorni, fanno i conti con un dolore asfissiante. Cruciale per un paese che è lì lì pronto a perire di vecchiaia.

Non cresciamo nel senso che invecchiamo ma non nasciamo. Così non si produce, ma soprattutto non si pensa, non si sogna, non si immagina. Si resta morenti a bordo mondo. Insomma se il problema dell’infertilità è una questione privata, privatissima, quello della scarsa natalità invece è questione collettiva. Suppongo che questo fosse il cruccio della ministra. Perché, se così è, le due incursioni fallimentari della ministra, quella di agosto con l’idea del fertility day e quella della campagna di settembre (vi ricordate gli orridi manifesti?) non lo lasciano certo trasparire. Sulla follia di queste due iniziative non voglio tornare.

La questione aperta è un’altra. La questione è invece la chiusa dell’autodifesa di Lorenzin quando dice “Contano i fatti, non le polemiche”. Quali fatti?

Ore 11 del 6 ottobre e sono in macchina e penso. Ed eccola la nostra cara sanità che mi viene in soccorso (frase mal riuscita, lo so). Sbircio Facebook al semaforo. Leggo il titolo: “Lecce, l’ambulanza non c’è: la ginecologa e la segretaria fanno partorire in studio la paziente”.  Lorenzin dice contano i fatti ed eccolo un fatto. C’è una donna che entra in travaglio durante la visita nello studio della sua ginecologa, deve partorire, ma l’ambulanza non c’è. Ecco il fatto: l’ambulanza non c’è. Chissà quanto gliene sarà importato a questa donna di Bari della campagna mal fatta della ministra contro l’infertilità mentre la sua ginecologa chiamava i 118 e si sentiva rispondere “No, niente ambulanza”. Per fortuna la dottoressa in questione è stata competente, per fortuna il parto è andato liscio. Per fortuna oggi c’è una mamma che può accudire suo figlio. Per fortuna la ministra non ha sulla sua scrivania l’ennesima caso di mala sanità.

Il nostro tasso di natalità è il più basso in assoluto, un 8 per mille a fronte del 10 per mille della media Ue. Nel 2015, dice Eurostat, in Italia sono nati 485.800 bimbi, e il numero di decessi, 647.600 ha superato ampiamente le nuove nascite. E questo è un fatto. Un fatto che si lega a un altro fatto la nostra “fertilità” a quanto pare sempre più compromessa. A questo proposito suggerisco la lettura di Neodemos sul tema. O meglio il primo nodo non si scioglie se non si scioglie anche il secondo. La dimensione collettiva si collega e innesca su quella individuale. E, cara ministra, visto che lei un po’ l’ha messa sul personale (non so forse mi sbaglio ma questa è l’impressione), sul personale la metterei anch’io. Anche perché tenderei a parlare solo di cose che ho visto.

Io, se lei è d’accordo, le butterei giù un elenchino di fatti o meglio di cose da fare, prese qua e là dalla vita. Un po’ per dimostrarle che se proprio vuole occuparsi della nostra fertilità e della natalità del Paese – a parte lasciar perdere gli slogan e le campagna pubblicitarie perché mi creda non si è mai vista una donna fare un figlio convinta da una bella fotina su un manifesto – queste che sto per dirle sono due o tre cose che a noi utenti della sanità servirebbero e forse sì ci aiuterebbero ad essere genitori. Un po’ per fissarle , ma è solo un suggerimento, una specie di agenda promemoria.

Le racconterei di me. Il mio nome completo è Maria Serena, vivo a Milano. D’altra parte dell’Italia, cioè in Sicilia, c’è un’altra Maria (Uccello) e un po’ più giovane ed è mia cugina. Io ho un figlio di tre anni, lei di quattro. Sa come succede tra mamme, e in più tra mamme cugine, ad ogni telefonata è tutto un “tu come fai con il bambino, io faccio così, e tu, ed etc…”. Io le raccontai cosi che, quando dopo il parto sono tornata a casa, l’ostetrica è venuta a casa per visitarmi. Stessa cosa durante l’allattamento. Invece nel suo caso non era successo. Insomma per farla breve: c’è una parte d’Italia in cui le donne invece partoriscono e poi quel che succede è affare loro, tornano a casa e se hanno nonni e famiglia ok, altrimenti si arrangino. Dunque, primo punto: assicurare a tutte le donne su tutto il territorio un’adeguata assistenza. In sostanza non lasciarle sole, sostenerle. Così, forse, decideranno di avere anche un secondo figlio.

Andiamo avanti. Collaboro con una persona, con cui si chiacchiera della vita. So che sta per diventare nonno per la seconda volta. Quindi chiamo e chiedo “Allora è nata?” Si immagini lei, ministra, la conversazione. E’ fatale che quando una madre chiede di un parto comincia a parlare sempre di sé, del proprio bambino. Io ci cado sempre. Finiamo a parlare di epidurale (che io ho avuto). Chiedo: com’è andata? Mi spiega che niente, che con il primo figlio sì ma stavolta no perché in quell’ospedale, in Veneto, non la fanno. Lo so, caro ministro su questo lei si è impegnata, però si segni: aiutare le donne a partorire senza inutili sofferenze, aumentare l’accesso alla diagnosi prenatale.

Io non tocco, per rispetto di chi vive sulla propria pelle questo percorso faticoso, il tema delle terapie per curare l’infertilità, però credo proprio che se si aumentassero i centri, i servizi, le prestazioni, migliorerebbe e assai la vita di molti cittadini e cittadine di questo paese.

Andiamo avanti, come molti ho sperimentato il lutto. Lei sa cara ministra che esistono regioni in Italia che non conoscono neanche il significato della parola hospice per i malati terminali? E spesso niente affatto per negligenza dei medici ma per inefficienza del sistema. Credo però che dopo l’ultimo episodio che si verificato al San Camillo di Roma lei sulla questione abbia un bel fascicolo sulla scrivania. Quindi non insisto però, la prego, si attivi. Mi creda, è importante.

Ed infine, ma solo perché ho già scritto due paginette e mi sa che sono lunga. Leggevo sempre questa mattina, e sempre su Facebook, che la scrittrice Simona Vinci ha condiviso sulla sua bacheca “l’Appello per la Salute Mentale promosso dalla SIEP e rivolto alle Istituzioni Regionali e Nazionali per restituire priorità al tema della Salute Mentale di Comunità”. Si legge: “…rivolgiamo un appello urgente per richiamare l’attenzione di Governo, Parlamento e Assemblee Regionali sulle drammatiche condizioni del Sistema di Cura per la Salute Mentale in Italia. I tagli alla sanità operati negli ultimi anni, le restrizioni al turn-over del personale, la riduzione dei centri di reponsabilità per l’accorpamento delle ASL, con la creazione di Dipartimenti di Salute Mentale “monster” per oltre 1 milione di abitanti e lo snaturamento dei principi fondanti la salute mentale di comunità, ossia la prossimità dei punti di accesso con i livelli di governo, il radicamento territoriale, il legame con le comunità locali, stanno determinando effetti devastanti sulla qualità dei servizi e sulla motivazione del corpo professionale. I Servizi per la Salute Mentale (SSM) subiscono questo processo di strisciante sotto-dimensionamento proprio quando tutte le statistiche indicano un aumento delle condizioni di disagio psichico nella popolazione: si calcola ad esempio che solo nel periodo 2006-2013 il numero delle persone che presentano sintomi di interesse psichiatrico (ansia e depressione, innanzitutto) sia cresciuto di oltre 1 milione”. Se vuole saperne di più eccole il link. L’ho condiviso anch’io perché, sempre per parlarle dei fatti miei, ho una sorella che fa la psichiatra, un cognato psicologo, la madrina di mia nipote pure lei psichiatra, una delle migliori amiche di mia sorella è un’assistente sociale, l’altra un’infermiera dell’ospedale in cui mia sorella lavora (in Lombardia, in provincia di Milano). Quindi lei potrà figurarsi come sono certi pranzi, quando ci si ritrova. Si parla, si parla. Poi io sono curiosa, allora faccio un milione di domande. Così mi capita di entrare (con l’immaginazione) nella stanza chiusa da anni in cui X si è barricato perché non vuole proprio uscire, di sentire il puzzo stantio della sofferenza impregnato dell’odor di feci. Con il bianco della vasca da bagno che non esiste più. La polvere a cumuli come il delirio. Troppo? Forse sì ma in questo troppo ci sono medici che ogni giorno ci sprofondano, sfiancati di fatica.

Sa noi a Natale mangiamo solo il panettone Caffarel e a Pasqua la colomba Caffarel, Toti ci tiene tantissimo. Toti è un paziente di mia sorella, ha quasi sessant’anni. Non so bene di quale male soffra. So però che ogni settimana va al Cps. Ci va, credo, da anni.