E se la maternità fosse una trasferta?

Il mondo del lavoro tratta la gravidanza come un’anomalia. E’ la premessa da cui parte il paper che il nuovo think tank renziano Volta ha pubblicato lo scorso 17 maggio per proporre idee nuove e concrete per far ripartire la natalità in Italia fa una premessa. La conferma arriva dai dati Istat: una donna su quattro non torna a lavorare dopo il congedo di maternità, e questa rinuncia raramente è una libera scelta. “Un imprevisto, una discontinuità che altera l’andamento lineare atteso e che si ripete ogni giorno, ogni anno, milioni di volte. Ed è per questo che continuare a considerarla un’anomalia ci costa troppo, economicamente, socialmente e umanamente. Se la realtà è già un’altra, è la nostra narrazione a non funzionare più. Dobbiamo saper immaginare un nuovo schema, che riconosca nella discontinuità un nuovo tratto della nostra normalità”. Un nuovo schema richiede parole nuove, nuove definizioni. Il paper propone quindi di ripensare alla definizione di “congedo di maternità”.

La parola congedo ha un significato forte e chiaro: vado via e non so quando torno. Non dice dove si va e perché, o a far cosa. Ha tra i suoi sinonimi anche “licenziarsi”!
L’espressione è simile in altre lingue: in inglese “leave” vuol dire “lasciare”, in spagnolo si arriva addirittura a parlare di “baja maternal”, che vuol dire “caduta di maternità”.
Più immediatamente di ogni altra informazione, il termine che usiamo per definire il periodo dedicato alla nascita di un figlio ci dice che avere figli è considerato un fatto esclusivamente privato, una scelta di persone che, per farlo, si “congedano”.
Nella parola congedo c’è il distacco tra vita pubblica e vita privata, l’isolamento della madre, l’abbandono della responsabilità lavorativa, il vuoto di un periodo sospeso, senza attività produttive, che non si sa quando finirà.

E allora: adottare un nuovo nome per il congedo di maternità e di paternità può essere un buon inizio per modificare tutte le attribuzioni implicite che questa definizione si porta dietro.Se siamo concordi nel ritenere che il periodo dedicato esclusivamente alla nascita di un figlio
1. non è un’assenza ma è una transizione che ha un inizio e una fine;
2. è un periodo di intensa (e faticosa!) attività dedicata alla cura di un bene comune, che appartiene alla società: genera valore proprio come le attività produttive… anzi è decisamente un’attività produttiva!

Possiamo dunque provare a dargli un nome che rifletta queste attribuzioni, per esempio:

  • mandato: dal lat. mandatum, derivato di mandare “affidare”- ruolo assegnato a terzi di eseguire qualcosa per proprio conto, incarico, missione
    “vado in mandato di maternità per conto della comunità: un figlio è un bene comune!”
    oppure
  • trasferta: trasferimento temporaneo di un lavoratore per ragioni di servizio
    “per qualche mese sarò in trasferta di maternità, a fare un lavoro essenziale per chi “resta in sede.

Cambiare un nome non richiede grandi risorse economiche e può avere un impatto reale sulla cultura e sulle interpretazioni implicite ed esplicite di questa fase della vita, e quindi sui comportamenti e sui pregiudizi che possono renderla così difficile.